mercoledì 22 aprile 2009
Ad Ugo Lanzalone
Non so dirlo, non so dirti
non so uscire dal nocciolo
chiuso, dei gesti non fatti
dalla penombra dei momenti
in cui, dal senso scostante dell’essere,
e non basta ammettersi,
annuirsi, ricomporsi
tutto il di più mi svuota
tutto il contorno mi sazia di nulla,
e non so dirti, non mi riesce di dirti
quello che consapevole non ti ho detto
quello che muto ho taciuto
nel non ancora, che potrebbe divenire mai più,
e non esiste questo mancarsi
per essersi troppo sfiorati
per non essere stati certi
di ciò che siamo
per non esserci amati abbastanza
per essere stati l'insufficienza
che si fa norma, la pochezza che
si fa regime, la nullatenenza che
acuisce le spine, e abbiamo altro
e questo altro non lo so proprio dire
non so dirlo, non so dirti
ora che il silenzio si fa regola
inalterabile, se non dalla pioggia
che non vuole smettere di cadere
dalla parola unilaterale,
dalla preghiera, per chi la vuole pregare
dal sogno per chi sa l'utopia,
dall'ipotesi di un futuro migliore
da parole antiche, quasi perse
quel comunismo, anarchico,
tuo primordiale, a falci e martelli,
e possibili giorni più belli,
dai tuoi spazi liberi,
condivisa poesia, e cibo,
che non potevi ma amavi,
vi vedevi un momento
di quelli più interi,
parte di un tutto
di un senso, lontani
dal rutto esistenziale che
non abbiamo, non hai
mai voluto accettare
e mi hai messo, ci hai messi,
ti sei messo nelle tue poesie,
ed hai fermato il luogo,
il nome, l'istante, con
delicato infinito gesto d'amore,
sofferto infinito amore,
delicato profondo esserti
ed esserci dentro
ed ora non ci resta che attendere
non sappiamo poi cosa
che sia un essere altro
che sia il caso, una cellula piena
un dio, un arrivederci, un a presto
un niente piantato nell'oltre
un addio, un ritroviamoci ancora
per leggerci l'ora e l'adesso
con quel modo che tu sai ricamare
con lenta tenace pazienza
parola dopo parola
essenza dopo essenza
ed ogni passo è una roccia
ogni verso muraglia
ogni peso un senso di te
una nuova leggerezza
e rabbia, e lucida ironia,
invettiva, da mettere al centro
di quello che abbiamo da fare,
da impastare con la docile
creta delle possibilità
con la voglia di mettere in dubbio
quel così è collettivo,
pensiero unico, motivo
che crede di essere il solo
sole che, prima o poi,
torna sempre a strafare,
su questo telo di pioggia
che piange le lacrime del non so
le lacrime del tra poco
le lacrime della speranza, che si
commuove di esistere e poi,
e poi proprio non so dirti
non so dirlo quanto diveniamo
la colpa di tutte le occasioni perse
le mosse sbagliate,
le idee non svelate
e di tutti i potremmo,
avremmo potuto, dipinti
dall’attento tratteggio
delle tue parole.
Giuseppe Spinillo
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