venerdì 22 maggio 2009
Intervento di Eligio Lupo
“Sublime spirito, tu mi hai dato, mi hai dato tutto,
che io ti pregai. Non invano tu il tuo volto
nel fuoco a me hai volto.
Hai dato a me la splendida Natura per regno,
forza per sentirla, per goderla.
Non solo il freddo stupore di una visita mi concedi,
mi permetti di scrutare nel suo profondo petto
come nel petto di un amico” (GOETHE, Faust).
Il suo non è stato mai un sapere rassicurante.
Il suo è stato un continuo vigilare e nello stesso tempo un allontanare da sé ogni seduzione intellettuale, ogni canto ammaliatore.
Dentro la sua voce si ascoltava la dannazione e la redenzione.
Ha donato la poesia a coloro i quali non l’hanno mai cercata.
Donata a tutti, diversa per ciascuno nel suo perenne domandarsi, rivolta al nostro interrogarci.
Negli ultimi tempi, la sua scrittura, era diventata ancora più urgente, come sottoposta ad un bisogno pressante. Quando l’urgenza preme l’estetica si spreme. Non era un nichilista ma il significante del linguaggio della sua scrittura traspone l’annichilimento dell’essere umano straniato dal deserto del reale. Così,Ugo Lanzalone, arriva ad esplorare l’inferno dell’esistente e la sua estetica smentisce quel culmine dell’immediatezza del sentire che fa recepire e metabolizzare facilmente, tutto ciò che tradisce la potenza della mente. “La mia poesia è infetta, ma può dare il vaccino che protegga dai facili comodissimi pensieri”, dice ancora Ugo. La sua morte, così difficile da digerire, è ancor più dura a doverla sopportare, non solo per l’uomo che era ma per quello che ci ha lasciato dentro. Mi mancherà il suo LOGOS che lacera. La mai urlata rivolta perenne delle sue sconvenienti verità.
Il suo pensiero - necessità irrinunciabile fra filosofia e poesia - incarna come se avesse voluto vivere ai margini della conoscenza a volte, del suo sapere, del suo essere stato fine intellettuale, critico e comunista, “quand’anche la materia del suo dire fosse stata un canto”. E comunque mai un canto solo. Un mondo della poesia aperto, dove tutto può essere possibile, deve essere possibile, come il modificarne i confini, e il suo contributo è stato tale che i confini finiscono per non esserci più. Indulgere Genio, diceva il Suo dio intimissimo e personale e Lui a Genius ha risposto con la Sua esigenza che è diventata anche la nostra. Questo ci lascia il nostro caro Ugo. E Giuseppe Spinillo, che aveva cooperato insieme a Lui, sarà testimone del Suo accondiscendere e concedere al mondo aperto della poesia; accondiscendente e concessivo come Lui, aperto al senso più ampio delle possibilità: e qui l’esigenza di Giuseppe coincide anche con quella che era la Sua esigenza.
Ugo ha mescolato, con rara umiltà – col distinto inappuntabile rigore della “sua” poesia – lo spettatore con la poesia e l’autore. All’interno dello spettatore ha fatto dimorare contenuti della poesia misconosciuti, che lo spettatore ha fatto propri, grazie anche al suo essere stato poeta-autore-spettatore. Ugo è stato uno di quelli che ha fatto scavalcare i muri insormontabili che la poesia spesso pone allo spettatore. Qualcuno ha scoperto la rivelazione di sé, portando alla luce ciò che la propria vertigine in precedenza gli aveva taciuto. Non sarò certo io a guardare quelle “vele verso terre non ancora scoperte”, dice Nietzsche, e la poesia di Ugo è proprio verso quelle terre che ambisce e approda, dal mio punto di vista.
La luce di Ugo cerca di raggiungerci e ci riesce, è il poeta contemporaneo che tiene fisso lo sguardo negli occhi di questo nostro secolo, non facendosi mai accecare, scorgendone luci, ombre e oscurità. “Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”, dice G. Agamben. Ed Ugo, poeta contemporaneo, questo fascio di tenebra lo riceve, lo trasla e con la sua poesia ce lo trasmette. Come ci trasmette anche, in Frammenti di un poema finale, il testamento della sua poesia e della sua poetica premonitoria, hoelderliniana, consapevolezza che la fatalità della morte, sempre in agguato, gli impone il presentimento che da lì a poco non lo risparmierà.
Avrei voluto trovare altre parole, che non la probabile trasfigurazione espressa in queste poche righe, per riuscire a dire del suo LOGOS e dell’efficacia a-stilistica della sua poesia, che ho sempre amato e apprezzato anche per il suo carattere lapidario. Che ritrovo in Poetica, epigramma della sua volontà di potenza, che dis-piega cos’è la sua poesia, com’è, cosa suscita, quello che lascia dentro. Poetica, è il primo testo di Frammenti di un poema finale, che ora vi leggo.
Poetica
La mia poesia non è adatta allo svago,
sì forse alla festa, non dà requie,
è dura
istrice che lancia aculei,
si inarca nell’attacco e fa male.
Ma poi improvvise curve
possono ristorare femminili
l’affannato viandante che l’attraversa.
La mia poesia è infetta,
ma può dare il vaccino che protegga
dai facili comodissimi pensieri.
Ci puoi anche giocare.
La ferita resta.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento